LA CORTE D'APPELLO
    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza nella causa civile in grado di
 appello iscritta al n. 942 del ruolo generale  contenzioso  dell'anno
 1992, posta in decisione all'udienza collegiale dell'11 dicembre 1992
 e  vertente tra Veschi Elvira, Veschi Maria Teresa, Veschi Gabriella,
 in  proprio  e  quali  legali   rappresentanti   della   "Immobiliare
 Cristoforo  Veschi"  S.r.l.;  Coco  Leandro, nella qualita' di legale
 rappresentante della "Immobiliare  Caterina  e  Cristoforo  Veschi  -
 Ricostruzione   aree  Madonna  del  lavoro  RIAMAL"A  quale  societa'
 incorporante della societa' "A.MA.LA. Areedil Madonna del  Lavoro"  a
 r.l.  tutti  elettivamente  domiciliati  in Roma, via Flaminia n. 21,
 presso lo studio degli avvocati Giuseppe Sammartino e Mario Bruni che
 li rappresentano e difendono  in  unione  all'avv.  Paolo  Agnino  in
 virtu'  di  delega  in  atti,  appellanti,  ed  il comune di Roma, in
 persona del sindaco in carica, elettivamente domiciliato in Roma, via
 del  Tempio  di  Giove   n.   21,   presso   l'avvocatura   comunale,
 rappresentato  e difeso dall'avv. Mauro Croci in virtu' di procura in
 atti, appellato.
    Oggetto: determinazine indennita' di esproprio.
                               F A T T O
    Con  atto  di  citazione notificato il 10 gennaio 1987, gli attori
 indicati in epigrafe  convenivano  in  giudizio  il  comune  di  Roma
 innanzi al tribunale di quella citta'.
    Gli  attori  chiedevano  la  rideterminazione  dell'indennita'  di
 esproprio fissata tra le parti nel contratto intercorso  in  data  28
 febbraio  1983,  con  il  quale  essi istanti avevano volontariamente
 ceduto al comune di Roma  un  terreno  esteso  mq  45.457,  ai  sensi
 dell'art.  12  della  legge  n. 865/1971, nell'ambito della procedura
 espropriativa promossa dal comune di  Roma  ed  in  riferimento  alla
 liquidazione dell'indenntia' provvisoria di espropriazione effettuata
 dal   presidente   della   giunta   regionale   (c.d.  espropriazione
 concordata).
    Precisavano che nel contratto il prezzo era stato pattuito  in  L.
 621.111.900  con  la  clausola  secondo  cui si sarebbe effettuato in
 seguito "il conguaglio in base alle norme legislative che saranno em-
 anate a seguito della sentenza della Corte costituzionale n.  5/1980,
 in esecuzione della legge 29 maggio 1980, n. 385".
    Peraltro,  siccome  la  legge  n.  385/1980   (norme   provvisorie
 sull'indennita'    di    espropriazione)    era    stata   dichiarata
 incostituzionale (cosi' come la sentenza della Corte n. 5/1980  aveva
 dichiarato  incostituzionale l'art. 16 della legge n. 865/1971) dalla
 sentenza della Corte n.  223/1983  e  quindi  era  venuta  meno  ogni
 concreta  possibilita'  di  conguaglio  in  riferimento alla legge n.
 865/1971  ed  alle  seguenti,  gli  attori  chiedevano  che   venisse
 determinato  il  prezzo  della  cessione (ovvero l'indennita' dovuta)
 secondo il valore del bene in un libero mercato (richiamando all'uopo
 l'art.  39  legge  fondamentale   sulle   espropriazioni   2359/1965)
 all'epoca  della  cessione.  Il  comune,  costituitosi,  si opponeva,
 chiedendo il rigetto della domanda.
    Acquisiti documenti ed espletata consulenza  tecnica  al  fine  di
 accertare  il  valore del bene, la causa veniva ritenuta in decisione
 dal tribunale, che, con  sentenza  pubblicata  il  7  dicembre  1991,
 dichiarava la propria incompetenza per materia, essendo competente la
 Corte di appello di Roma in unico grado.
    Gli attori sopraindicati, con comparsa 2 marzo 1992, provvederanno
 a  riassumere  la  causa dinanzi a questa Corte, citando il comune di
 Roma, che si costituiva, insistendo per la reiezione della domanda.
    Precisate le conclusioni,  la  causa  era  ritenuta  in  decisione
 all'udienza collegiale dell'11 dicembre 1992.
                             D I R I T T O
    1.  -  Con  l'azione  proposta  gli  attori  mirano ad ottenere la
 rideterminazione, o  comunque  la  perequazione,  dell'indennita'  di
 espropriazione  a seguito dell'atto di cessione volontaria ex art. 12
 della legge n. 865/1971 intercorso tra essi e il comune  di  Roma  in
 data 28 febbraio 1983.
    Alla  fattispecie in esame e' pienamente applicabile il principio,
 affermato  dalla  giurisprudenza  della  suprema  Corte  (ved.  Cass.
 4695/1989)  secondo  cui  al  proprietario del fondo espropriando, il
 quale nell'ambito di procedura ablativa promossa a norma della  legge
 22  ottobre  1971, n. 865, abbia convenuto la cessione volontaria del
 bene, per un corrispettivo determinato, salvo conguaglio, sulla  base
 dei  criteri indennitari provvisori di cui alla legge 29 luglio 1980,
 n.   385,   deve   riconoscersi,   a   seguito   della   declaratoria
 d'incostituzionalita'   di  tali  criteri,  il  diritto  di  ottenere
 l'equivalente del prezzo di mercato del bene ceduto, in  applicazione
 dell'art.  39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, considerato che il
 suddetto patto non integra mera espressione  di  autonomia  negoziale
 privata,  ma  si  inserisce  in  un  contratto  pubblicistico  ove il
 corrispettivo  del  trasferimento  volontario  si  correla,  in  modo
 vincolato,   ai   parametri  legali  circa  la  determinazione  della
 indennita' espropriativa.
    Questa Corte dovrebbe, pertanto, procedere alla determinazione  di
 tale  indennita', alla luce di tale criteri, senonche', nel corso del
 giudizio, e' radicalemnte cambiato il quadro giuridico entro il quale
 e' stata instaurata la presente controversia, in quanto con la  legge
 8   agosto   1992,   n.   359,   rt.  5-  bis,  e'  stata  introdotta
 nell'ordinamento  positivo  una  nuova  normativa   in   materia   di
 determinazione   della   indennita'   di   espropriazione,  normativa
 immediatamente applicabile alla fattispecie  in  esame  a  mente  del
 settimo comma del citato art. 5-bis.
    A  parere  della Corte, tale normativa, nella parte in cui fissa i
 nuovi criteri per la determinazione dell'indennita' di espropriazione
 per i suoli edificatori, come quello per cui e' causa, si presenta in
 piu' punti in contrasto con la Costituzione.
    Va  premesso  che  la  nuova  disposizione  recepisce  e  richiama
 integralmente il criterio di calcolo della indennita' di cui all'art.
 13,  terzo  comma,  della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, meglio nota
 come legge su Napoli, costituito dalla semisomma tra valore venale  e
 fitti  coacervati,  e cioe' tra valore di scambio (recepito dall'art.
 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359) e  valore  di  godimento  del
 bene,  sostituendo  in  ogni  caso  ai  fitti  coacervati  il reddito
 dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e  seguenti  del  testo
 unico   delle  imposte  sui  redditi.  Tale  criterio,  pero',  trova
 applicazione  solo   per   le   ipotesi   di   cessione   volontaria,
 applicandosi,  in caso contrario, la riduzione del quaranta per cento
 sull'importo come sopra determinato.
    E' noto che il criterio della semisomma tra valore venale e  fitti
 coacervati,  introdotto  al  legislatore  del  1865  per  favorire  i
 proprietari di case vecchie  e  decrepite  ma  ad  alto  reddito  del
 vecchio centro storico di Napoli, si tramuto' nel tempo in una sicura
 falcidia  legislativamente  prevista  del  valore  venale  del  bene,
 falcidia aggirantesi tra il 51%  ed  il  60%  del  detto  valore,  e,
 proprio  per  tale ragione, fu esteso a numerose altre espropriazioni
 per la  realizzazione  di  opere  pubbliche  con  vari  provvedimenti
 legislativi.  Sottoposto  al  vaglio  della  Corte costituzionale, il
 criterio in parola fu riconosciuto costituzionalmente  legittimo  dal
 giudice delle leggi con la lontana sentenza 18 febbraio 1960, n. 5.
    Orbene,  non  ritiene  la  Corte  che  la  citata  sentenza  possa
 costituire  usbergo  definitivo  a  censure  di   incostituzionalita'
 rivolte  al  criterio  indennitario  recentemente introdotto, proprio
 alla luce della successiva gurisprudenza della Corte  costituzionale,
 di  cui alla sentenza n. 5 del 30 gennaio 1980, confermata dalle suc-
 cessive nn. 13/1980 e 22/1983.
    La  Corte  costituzionale  ha,  infatti, espressamente escluso che
 l'indennizzo  richiesto  dal   terzo   comma   dell'art.   42   della
 Costituzione  sia  necessariamente  pari al giusto prezzo che avrebbe
 avuto l'immobile  in  una  libera  contrattazione  di  compravendita,
 essendo  sufficiente allo scopo un ristoro serio e tale da non ledere
 il principio costituzionale di uguaglianza.
    Orbene,  con  l'applicazione  del  criterio  indennitario  di  cui
 all'art.  13,  il  terzo  comma,  della legge n. 2892/1885, il valore
 venale viene abbattuto  della  meta',  noto  esendo  che  il  reddito
 dominicale  rivalutato  di  cui  agli  artt. 24 e segg. del d.P.R. n.
 917/1986, che  costituisce  l'altro  addendo  della  somma,  e'  cosa
 trascurabile  in  termini  monetari;  la  suddetta  meta'  del valore
 venale, viene ulteriormente ridotta del quaranta per cento,  per  cui
 il  privato espropriato potra' al massimo ottenere una indennita' che
 si aggira intorno ad un terzo del valore venale; nella fattispecie in
 esame, un semplice calcolo riferito alle risultanze della  consulenza
 tecnica espletata conferma tali conclusioni.
    Orbene,  a parere di questa Corte, tale determinazione si presenta
 particolarmente onerosa per  il  privato  espropriato,  ponendo  seri
 dubbi  di  costituzionalita' sotto il profilo del serio ristoro e del
 principio costituzionale di uguaglianza di cui  agli  artt.  3  e  42
 della Costituzione.
    Invero,  un  indennizzo  che comporta una falcidia pari a circa il
 settanta per centro del valore venale del bene, non  contiene  quelle
 caratteristiche previste dalla giurisprudenza del giudice delle leggi
 soprarichiamate   e   che   rappresentano   la   soglia   minima   di
 costituzionalita' cui deve essere informata una legge in materia  per
 essere ritenuta conforme al precetto dell'art. 42, terzo comma, della
 Costituzione.  Da un lato, tale indennizzo non costituisce quel serio
 ristoro, che  vale  a  garantire  adeguatamente  l'espropriato  della
 perdita subita, dall'altro esso finisce per attuare un'ingiustificata
 disparita'   di   trattamento   tra  cittadini  proprietari  di  aree
 edificabili, che vengano colpiti o meno dall'espropriazione.
    La norma in parola, inoltre, appare in contrasto anche con  l'art.
 53  della  Costituzione,  secondo  cui tutti sono tenuti a concorrere
 alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva.
    Invero,  con  indennizzo  pari  al   valore   venale   del   bene,
 l'espropriato  concorrerebbe  alla  spesa pubblica, come tutti e alla
 pari di tutti, attraverso l'imposizione fiscale.
    Ma se l'indennita' da corrispondere e corrisposta  all'espropriato
 non  e'  pari  al  valore  venale ma notevolmente ridotta rispetto ad
 esso, lo stesso espropriato concorrera' alla spesa pubblica in misura
 maggiore degli altri, nella misura in cui l'indennizzo sia  inferiore
 al  valore  effettivo del bene espropriato: e tale maggior sacrificio
 contributivo  non  e'  minimamente  correlato  alla   sua   capacita'
 contributiva. Ogni divaricazione che la legge ordinaria introduce tra
 indennita'   di   esproprio   a   valore   venale   del   bene   crea
 surrettiziamente  una  vera  imposizione  tributaria  patrimoniale  e
 singolare  a carico dell'espropriato, con palese violazione dell'art.
 53 della Costituzione.
    2.   -   Altro   elemento,   fonte    di    fondati    dubbi    di
 incostituzionalita',  emerge  dal  terzo  comma  dell'art. 5- bis, il
 quale dispone che ai fini della edificabilita' delle aree  si  devono
 considerare non solo le possibilita' legali, ma anche le possibilita'
 effettive  di  edificazione esistenti al momento dell'apposizione del
 vincolo preordinato all'esproprio.
    Com'e'   noto  la  giurisprudenza  di  legittimita'  ha  da  tempo
 affermato  che  in   tanto   i   vincoli   urbanistici,   legali   ed
 amministrativi  possono influenzare la determinazione dell'indennita'
 in quanto la loro presenza sia stata fatta rispettare e quindi incida
 concretamente sul valore di mercato degli immobili.
    In  altri  termini,  nell'ipotesi   di   errore   di   valutazioni
 urbanistiche o nel caso in cui i vincoli non sono piu' rispettati ne'
 fatti rispettare, il valore commerciale del suolo tende a prescindere
 da  quello connesso alla situazione giuridica inattuale, inadegauta o
 inapplicata. Ed infatti, secondo la  cennata  giurisprudenza,  sicuri
 parametri   dell'edificatorieta'   di  un  fondo  sono  l'ubicazione,
 l'accessibilita', lo sviluppo edilizio in  atto  (anche  se  abusivo)
 nelle  aree  adiacenti,  la  presenza  di opere a rete (strade, luce,
 acqua) o di urbanizzazione primaria (vedi Cass. 12  aprile  1990,  n.
 3117; Cass. 25 gennaio 1989 n. 422).
    Orbene  la  disposizione  in  esame  contrasta  con  il principio,
 costantemente affermato anche  dalla  giurisprudenza  costituzionale,
 secondo   il   quale   l'indennita'  di  espropriazione  deve  essere
 determinata con riferimento alla data  dell'espropriazione,  per  cui
 gli  elementi  di valutazione devono essere quelli esistenti a questa
 data, atteso che l'indennita' e' pur sempre il corrispettivo  per  il
 trasferimento  coattivo della proprieta' del bene, che a quel momento
 temporale deve essere correlato.
    Con l'art. 5- bis, terzo comma, il legislatore ha  invece  violato
 questo principio giuridico e di razionalita'.
    Puo', invero, accadere, ed accade nella presente controversia, che
 tra    il    momento   dell'apposizione   del   vincolo   preordinato
 all'espropriazione e quello dell'espropriazione intercorra  un  cosi'
 rilevante   lasso  temporale,  che  l'indennita'  non  ha  piu'  come
 parametro il valore  di  un'area  edificabile  che  pur  pretende  di
 compensare, bensi' un'area che al momento dell'imposizone del vincolo
 aveva una destinazione agricola.
    Proprio   qui  si  coglie  un  elemento  di  contraddittorieta'  e
 d'irrazionalita' della norma, la quale, da una parte, e' dettata  per
 l'indennizzo  delle  aree edificabili e, dall'altro, pretende che per
 la  valutazione  dell'edificabilita'  si   debbano   considerare   le
 possibilita' legali ed effettive di edificazione esistenti al momento
 dell'imposizione   del   vincolo  (risalenti  all'adozione  nel  1962
 dell'attuale Piano regolatore), il che e' come dire tale  valutazione
 verrebbe  a  riguardare  un'area  con  destinazione a quel momento di
 riferimento agricola e non ancora urbana e urbanizzata.
    In tal modo, a parere della  Corte,  si  svuota  di  contenuto  il
 precetto    costituzionale   dell'art.   42,   terzo   comma,   della
 Costituzione, che impone  la  corresponsione  di  un  indennizzo  che
 costituisca  serio  riscontro  per  la  perdita del bene espropriato,
 serio ristoro che deve necessariamente e direttamente  collegarsi  al
 valore economico attuale del bene stesso.
    Sotto  altro profilo, attese le lungaggini del procedimento tra il
 momento dell'apposizione del vincolo  e  quello  dell'espropriazione,
 puo'  affermarsi che il legislatore, con la disposizione in esame, ha
 inteso premiare la lentezza e l'inefficienza dell'amministrazione, la
 quale, in tal modo, ha tutto da guadagnare nel divaricare al  massimo
 nel   tempo   i   due   momenti   dell'imposizione   del   vincolo  e
 dell'espropriazione, atteso che al momento di espropriare e di pagare
 la   relativa   indennita'   e'  evidentemente  conveniente,  con  il
 meccanismo legislativo censurato, che i dati per la valutazione siano
 i piu' remoti possibili.
    Da cio' emerge anche la violazione dell'art. 97 della Costituzione
 in quanto in tal  modo  non  si  e'  certamente  assicurato  il  buon
 andamento e l'imparzialita' della pubblica amministrazione.
    3.  -  Fondati  dubbi di incostituzionalita' vanno, a parere della
 Corte,  avanzati  nei   confronti   della   disposizione,   contenuta
 nell'ultima  parte del primo comma dell'art. 5- bis, secondo la quale
 l'importo dell'indennita' di espropriazione e' ridotto  del  quaranta
 per cento, salvo il caso del soggetto espropriato che abbia convenuto
 la cessione volontaria del bene (art. 5- bis, secondo comma).
    La disposizione in parola appare, in primo luogo, in contrasto con
 l'art.   3  della  Costituzione,  in  quanto  introduce  una  vistosa
 disparita'  di  trattamento  tra   espropriati   che   accettano   la
 determinazione   dell'indennita'  effettuata  in  via  definitiva  ed
 espropriati  che  non  accettano  siffatta  liquidazione,  in  quanto
 l'ulteriore riduzione agisce come deterrente ed appare introdotta non
 tanto allo scopo di incentivare le cessioni volontarie, quanto con il
 fine  evidente  di  scoraggiare  o  meglio  di  punire  coloro che si
 rifiutano di consegnare l'immobile.
    Ma cosi' strutturata la disposizione appare  in  contrasto  con  i
 principi  contenuti  negli  art.  24  e  113  della Costituzione, che
 tutelano il diritto di azione e di difesa del cittadino.
    Si consideri che la  valutazione  del  valore  venale  di  un'area
 edificabile  e' procedimento tecnico-estimativo complesso, per cui si
 puo' prevedere che l'espropriato, dinanzi all'offerta dell'indennita'
 di espropriazione, non abbia i requisiti tecnici e di esperienza  per
 verificare   se   la   somma  offerta  sia  congrua  e  correttamente
 determinata; ovvero,  anche  avendo  i  detti  requisiti,  non  possa
 comunque  controllare  l'esattezza  della stima, attesa la diversita'
 dei risultati che si  ottengono  con  i  diversi  metodi  estimativi;
 ovvero,  si  rendera'  conto  che  la  stima  effettuata e' errata od
 incongrua. Ne consegue che il privato di fronte  alla  determinazione
 dell'indennita'  si  trova  dinanzi ad un'alternativa assai rischiosa
 sotto entrambi i profili: o l'accetta cosi' com'e' anche se frutto di
 una valutazione inadeguata o imprecisa, ovvero, l'impugna correndo il
 rischio di  un'ulteriore  sensibile  decurtazione  del  quaranta  per
 cento.  Riduzione  che  si  applica in ogni caso, anche se il privato
 vede accolta la propria domanda di opposizione giudiziale alla stima,
 potendo   addirittura   verificarsi   l'ipotesi   che    l'indennita'
 determinata dall'autorita' giudiziaria risulti ben superiore a quella
 offerta in via amministrativa, ma che per effetto della riduzione del
 quaranta  per  cento  detta  indennita'  venga  ad essere inferiore a
 quella offerta.
    Alla stregua di  tali  considerazioni,  il  diritto  di  agire  in
 giudizio  per  l'accertamento  dei  propri  diritti appare gravemente
 leso, per cui il perverso meccanismo  introdotto  dall'art.  5-  bis,
 nella  parte  in  cui  sancisce in buona sostanza il pagamento di una
 penale del quaranta per cento della giusta indennita'  nle  caso  che
 questa  sia determinata in via giudiziale, contrasta con gli artt. 24
 e 113 della Costituzione.
    4.   -   Altro   profilo   di   incostituzionalita'   nasce  dalla
 constatazione che la nuova normativa adotta una duplicita' di criteri
 di determinazione dell'indennita' di esproprio a seconda del tipo  di
 suolo  espropriato, confermando il criterio del valore agricolo medio
 per le aree agricole, richiamando appositamente il  titolo  II  della
 legge  22  ottobre  1971,  n.  865,  e  successive  modificazioni  ed
 integrazioni (art. 5- bis, della legge n. 359/1992, quarto comma).
    Come hanno osservato  i  primi  commentatori  della  disposizioni,
 appare evidente il contrasto che si viene a creare tra le due diverse
 discipline  espropriative dei suoli agricoli e dei suoli edificatori:
 la prima viene incontro all'espropriato  mediante  alcune  indennita'
 aggiuntive,  prevedendo  da  un  lato, un prezzo di cessione che puo'
 arrivare fino al 150%  dell'indennita'  provvisoria  (art.  12  della
 legge  n.  865/1971  come  novellato  dall'art.  14  della  legge  n.
 10/1977), senza influire su quella che sara' la successiva indennita'
 definitiva e dall'altro congrui vantaggi per i titolari di un diritto
 di godimento sui suoli stessi. Ed infatti se la cessione del bene  e'
 operata dal proprietario che sia anche coltivatore diretto, il prezzo
 di  cessione  (art.  17,  primo  comma, della legge n. 865/1971, come
 modificato dall'art. 14 della legge n. 10/1977) e' previsto in misura
 tripla rispetto all'indennita'  provvisoria,  mentre  se  non  vi  e'
 identita'   tra   proprietario   e   fittavolo,  mezzadro,  colono  o
 compartecipe, e questi ultimi sono stati costretti ad abbandonare  il
 terreno,  ad  essi compete un'indennita' aggiuntiva calcolata in base
 al  valore  agricolo  medio.  La  seconda  penalizza  il  proprietaro
 concedendogli appena un terzo del valore penale e lo penalizza ancora
 di  piu' se si tratta di un suolo edificatorio ancora coltivato da un
 fittavolo, mezzadro o colono: in tal caso secondo l'indiririzzo  dela
 Corte   costituzionale   (sentenza   n.   1022/1988),   non  trovando
 applicazione il criterio del valore  agricolo  medio,  dall'indenita'
 corrisposta  al  proprietario,  in  base  al  principio dell'unicita'
 dell'indennita', andrebbe detratta l'indennita'  per  il  coltivatore
 non proprietario facendo scendere al di sotto del livello del 30% del
 valore  del bene l'indennita' di esproprio effettivamente corrisposta
 al proprietario espropriato.
    5.  -  Ulteriore  profilo  di  illegittimita'  costituzionale,  in
 relazione  alla  violazione  dell'art. 3 dela Costituzione, nasce dal
 rilievo che la nuova  determinazione  dell'indennita'  presuppone  la
 perfetta  regolarita' del procedimento espropriativo. Ove, invece, il
 decreto di esproprio non sia stato emanato  o  sia  stato  dichiarato
 illegittimo,  ovvero  sia  pervenuto tardivamente e quanti inutiliter
 datum, perche' successivo alla realizzazione  dell'opera  pubblica  o
 all'intervento   del   pubblico   interesse,  trova  applicazione  la
 giurisprudenza relativa alla c.d.  occupazione  appropriativa.  Sotto
 questo  profilo  e'  evidente  un'ulteriore vistosa ed ingiustificata
 disparita' di trattamento tra le due forme di  espropriazione:  l'una
 che  rispetta  per  intero  il  procedimento  espropriativo,  ma  che
 assicura al proprietario espropriato solo un terzo del valore  venale
 del suo bene, l'altra priva del decreto di esproprio o con un decreto
 di  esproprio  tardivo e quindi inutile, assai diffusa nella pratica,
 e' piu' favorevole per il privato che ha diritto al risarcimento  del
 danno in misura pari al valore venale del bene.
    6.  -  Sotto diverso profilo si presta a censure di illegittimita'
 costituzionale la disposizione di cui al settimo comma  dell'art.  5-
 bis,  il quale dispone che la nuova determinazione dell'indennita' di
 espropriazione si applica ai procedimenti ancora in corso.
    Non  ignora la Corte che il principio di irretroattivita', sancito
 nell'art. 11 delle preleggi, al di  fuori  del  campo  penale  dov'e'
 esplicitamente costituzionalizzato, non assurge nella sua assolutezza
 a  precetto  costituzionale, ma rappresenta solo una direttiva per il
 legislatore ordinario, quale espresione di "civilta' giuridica" (vedi
 sentenza Coste costituzionale n. 13/1977), il quale puo' derogarvi in
 base  a  serie   ragioni   giustificatrici   (vedi   sentenze   Corte
 costituzionale nn. 19/1970, 175/1974, 184/1976 e 70/1983).
    Orbene,  proprio  nella materia in esame, non e' dato vedere quali
 siano le serie ragioni giustificatrici per  la  deroga  al  principio
 della  irretroattivita',  tenuto  conto  che  la  normativa  e' stata
 introdotta dopo una inerzia del legislatore durata  per  oltre  dieci
 anni.  Aggiungasi,  poi, che la nuova disciplina riveste il carattere
 della provvisorieta', come si coglie subito alla  lettura  del  primo
 comma  dell'art.  5-  bis,  che  rinvia  all'emanazione di una futura
 disciplina  organica   per   tutte   le   espropriazioni,   per   cui
 l'applicazione   ai   rapporti   in   corso  del  nuovo  criterio  di
 determinazione dell'indennita' non appare  ispirato  al  giudizio  di
 ragionevolezza,  sicche' il legislatore ben poteva e doveva stabilire
 l'applicazione della nuova regolamentazione alle espropriazioni  dopo
 l'entrata in vigore della legge.