LA CORTE D'APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 942 del ruolo generale contenzioso dell'anno 1992, posta in decisione all'udienza collegiale dell'11 dicembre 1992 e vertente tra Veschi Elvira, Veschi Maria Teresa, Veschi Gabriella, in proprio e quali legali rappresentanti della "Immobiliare Cristoforo Veschi" S.r.l.; Coco Leandro, nella qualita' di legale rappresentante della "Immobiliare Caterina e Cristoforo Veschi - Ricostruzione aree Madonna del lavoro RIAMAL"A quale societa' incorporante della societa' "A.MA.LA. Areedil Madonna del Lavoro" a r.l. tutti elettivamente domiciliati in Roma, via Flaminia n. 21, presso lo studio degli avvocati Giuseppe Sammartino e Mario Bruni che li rappresentano e difendono in unione all'avv. Paolo Agnino in virtu' di delega in atti, appellanti, ed il comune di Roma, in persona del sindaco in carica, elettivamente domiciliato in Roma, via del Tempio di Giove n. 21, presso l'avvocatura comunale, rappresentato e difeso dall'avv. Mauro Croci in virtu' di procura in atti, appellato. Oggetto: determinazine indennita' di esproprio. F A T T O Con atto di citazione notificato il 10 gennaio 1987, gli attori indicati in epigrafe convenivano in giudizio il comune di Roma innanzi al tribunale di quella citta'. Gli attori chiedevano la rideterminazione dell'indennita' di esproprio fissata tra le parti nel contratto intercorso in data 28 febbraio 1983, con il quale essi istanti avevano volontariamente ceduto al comune di Roma un terreno esteso mq 45.457, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 865/1971, nell'ambito della procedura espropriativa promossa dal comune di Roma ed in riferimento alla liquidazione dell'indenntia' provvisoria di espropriazione effettuata dal presidente della giunta regionale (c.d. espropriazione concordata). Precisavano che nel contratto il prezzo era stato pattuito in L. 621.111.900 con la clausola secondo cui si sarebbe effettuato in seguito "il conguaglio in base alle norme legislative che saranno em- anate a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 5/1980, in esecuzione della legge 29 maggio 1980, n. 385". Peraltro, siccome la legge n. 385/1980 (norme provvisorie sull'indennita' di espropriazione) era stata dichiarata incostituzionale (cosi' come la sentenza della Corte n. 5/1980 aveva dichiarato incostituzionale l'art. 16 della legge n. 865/1971) dalla sentenza della Corte n. 223/1983 e quindi era venuta meno ogni concreta possibilita' di conguaglio in riferimento alla legge n. 865/1971 ed alle seguenti, gli attori chiedevano che venisse determinato il prezzo della cessione (ovvero l'indennita' dovuta) secondo il valore del bene in un libero mercato (richiamando all'uopo l'art. 39 legge fondamentale sulle espropriazioni 2359/1965) all'epoca della cessione. Il comune, costituitosi, si opponeva, chiedendo il rigetto della domanda. Acquisiti documenti ed espletata consulenza tecnica al fine di accertare il valore del bene, la causa veniva ritenuta in decisione dal tribunale, che, con sentenza pubblicata il 7 dicembre 1991, dichiarava la propria incompetenza per materia, essendo competente la Corte di appello di Roma in unico grado. Gli attori sopraindicati, con comparsa 2 marzo 1992, provvederanno a riassumere la causa dinanzi a questa Corte, citando il comune di Roma, che si costituiva, insistendo per la reiezione della domanda. Precisate le conclusioni, la causa era ritenuta in decisione all'udienza collegiale dell'11 dicembre 1992. D I R I T T O 1. - Con l'azione proposta gli attori mirano ad ottenere la rideterminazione, o comunque la perequazione, dell'indennita' di espropriazione a seguito dell'atto di cessione volontaria ex art. 12 della legge n. 865/1971 intercorso tra essi e il comune di Roma in data 28 febbraio 1983. Alla fattispecie in esame e' pienamente applicabile il principio, affermato dalla giurisprudenza della suprema Corte (ved. Cass. 4695/1989) secondo cui al proprietario del fondo espropriando, il quale nell'ambito di procedura ablativa promossa a norma della legge 22 ottobre 1971, n. 865, abbia convenuto la cessione volontaria del bene, per un corrispettivo determinato, salvo conguaglio, sulla base dei criteri indennitari provvisori di cui alla legge 29 luglio 1980, n. 385, deve riconoscersi, a seguito della declaratoria d'incostituzionalita' di tali criteri, il diritto di ottenere l'equivalente del prezzo di mercato del bene ceduto, in applicazione dell'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, considerato che il suddetto patto non integra mera espressione di autonomia negoziale privata, ma si inserisce in un contratto pubblicistico ove il corrispettivo del trasferimento volontario si correla, in modo vincolato, ai parametri legali circa la determinazione della indennita' espropriativa. Questa Corte dovrebbe, pertanto, procedere alla determinazione di tale indennita', alla luce di tale criteri, senonche', nel corso del giudizio, e' radicalemnte cambiato il quadro giuridico entro il quale e' stata instaurata la presente controversia, in quanto con la legge 8 agosto 1992, n. 359, rt. 5- bis, e' stata introdotta nell'ordinamento positivo una nuova normativa in materia di determinazione della indennita' di espropriazione, normativa immediatamente applicabile alla fattispecie in esame a mente del settimo comma del citato art. 5-bis. A parere della Corte, tale normativa, nella parte in cui fissa i nuovi criteri per la determinazione dell'indennita' di espropriazione per i suoli edificatori, come quello per cui e' causa, si presenta in piu' punti in contrasto con la Costituzione. Va premesso che la nuova disposizione recepisce e richiama integralmente il criterio di calcolo della indennita' di cui all'art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, meglio nota come legge su Napoli, costituito dalla semisomma tra valore venale e fitti coacervati, e cioe' tra valore di scambio (recepito dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359) e valore di godimento del bene, sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi. Tale criterio, pero', trova applicazione solo per le ipotesi di cessione volontaria, applicandosi, in caso contrario, la riduzione del quaranta per cento sull'importo come sopra determinato. E' noto che il criterio della semisomma tra valore venale e fitti coacervati, introdotto al legislatore del 1865 per favorire i proprietari di case vecchie e decrepite ma ad alto reddito del vecchio centro storico di Napoli, si tramuto' nel tempo in una sicura falcidia legislativamente prevista del valore venale del bene, falcidia aggirantesi tra il 51% ed il 60% del detto valore, e, proprio per tale ragione, fu esteso a numerose altre espropriazioni per la realizzazione di opere pubbliche con vari provvedimenti legislativi. Sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, il criterio in parola fu riconosciuto costituzionalmente legittimo dal giudice delle leggi con la lontana sentenza 18 febbraio 1960, n. 5. Orbene, non ritiene la Corte che la citata sentenza possa costituire usbergo definitivo a censure di incostituzionalita' rivolte al criterio indennitario recentemente introdotto, proprio alla luce della successiva gurisprudenza della Corte costituzionale, di cui alla sentenza n. 5 del 30 gennaio 1980, confermata dalle suc- cessive nn. 13/1980 e 22/1983. La Corte costituzionale ha, infatti, espressamente escluso che l'indennizzo richiesto dal terzo comma dell'art. 42 della Costituzione sia necessariamente pari al giusto prezzo che avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compravendita, essendo sufficiente allo scopo un ristoro serio e tale da non ledere il principio costituzionale di uguaglianza. Orbene, con l'applicazione del criterio indennitario di cui all'art. 13, il terzo comma, della legge n. 2892/1885, il valore venale viene abbattuto della meta', noto esendo che il reddito dominicale rivalutato di cui agli artt. 24 e segg. del d.P.R. n. 917/1986, che costituisce l'altro addendo della somma, e' cosa trascurabile in termini monetari; la suddetta meta' del valore venale, viene ulteriormente ridotta del quaranta per cento, per cui il privato espropriato potra' al massimo ottenere una indennita' che si aggira intorno ad un terzo del valore venale; nella fattispecie in esame, un semplice calcolo riferito alle risultanze della consulenza tecnica espletata conferma tali conclusioni. Orbene, a parere di questa Corte, tale determinazione si presenta particolarmente onerosa per il privato espropriato, ponendo seri dubbi di costituzionalita' sotto il profilo del serio ristoro e del principio costituzionale di uguaglianza di cui agli artt. 3 e 42 della Costituzione. Invero, un indennizzo che comporta una falcidia pari a circa il settanta per centro del valore venale del bene, non contiene quelle caratteristiche previste dalla giurisprudenza del giudice delle leggi soprarichiamate e che rappresentano la soglia minima di costituzionalita' cui deve essere informata una legge in materia per essere ritenuta conforme al precetto dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione. Da un lato, tale indennizzo non costituisce quel serio ristoro, che vale a garantire adeguatamente l'espropriato della perdita subita, dall'altro esso finisce per attuare un'ingiustificata disparita' di trattamento tra cittadini proprietari di aree edificabili, che vengano colpiti o meno dall'espropriazione. La norma in parola, inoltre, appare in contrasto anche con l'art. 53 della Costituzione, secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva. Invero, con indennizzo pari al valore venale del bene, l'espropriato concorrerebbe alla spesa pubblica, come tutti e alla pari di tutti, attraverso l'imposizione fiscale. Ma se l'indennita' da corrispondere e corrisposta all'espropriato non e' pari al valore venale ma notevolmente ridotta rispetto ad esso, lo stesso espropriato concorrera' alla spesa pubblica in misura maggiore degli altri, nella misura in cui l'indennizzo sia inferiore al valore effettivo del bene espropriato: e tale maggior sacrificio contributivo non e' minimamente correlato alla sua capacita' contributiva. Ogni divaricazione che la legge ordinaria introduce tra indennita' di esproprio a valore venale del bene crea surrettiziamente una vera imposizione tributaria patrimoniale e singolare a carico dell'espropriato, con palese violazione dell'art. 53 della Costituzione. 2. - Altro elemento, fonte di fondati dubbi di incostituzionalita', emerge dal terzo comma dell'art. 5- bis, il quale dispone che ai fini della edificabilita' delle aree si devono considerare non solo le possibilita' legali, ma anche le possibilita' effettive di edificazione esistenti al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio. Com'e' noto la giurisprudenza di legittimita' ha da tempo affermato che in tanto i vincoli urbanistici, legali ed amministrativi possono influenzare la determinazione dell'indennita' in quanto la loro presenza sia stata fatta rispettare e quindi incida concretamente sul valore di mercato degli immobili. In altri termini, nell'ipotesi di errore di valutazioni urbanistiche o nel caso in cui i vincoli non sono piu' rispettati ne' fatti rispettare, il valore commerciale del suolo tende a prescindere da quello connesso alla situazione giuridica inattuale, inadegauta o inapplicata. Ed infatti, secondo la cennata giurisprudenza, sicuri parametri dell'edificatorieta' di un fondo sono l'ubicazione, l'accessibilita', lo sviluppo edilizio in atto (anche se abusivo) nelle aree adiacenti, la presenza di opere a rete (strade, luce, acqua) o di urbanizzazione primaria (vedi Cass. 12 aprile 1990, n. 3117; Cass. 25 gennaio 1989 n. 422). Orbene la disposizione in esame contrasta con il principio, costantemente affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale l'indennita' di espropriazione deve essere determinata con riferimento alla data dell'espropriazione, per cui gli elementi di valutazione devono essere quelli esistenti a questa data, atteso che l'indennita' e' pur sempre il corrispettivo per il trasferimento coattivo della proprieta' del bene, che a quel momento temporale deve essere correlato. Con l'art. 5- bis, terzo comma, il legislatore ha invece violato questo principio giuridico e di razionalita'. Puo', invero, accadere, ed accade nella presente controversia, che tra il momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'espropriazione e quello dell'espropriazione intercorra un cosi' rilevante lasso temporale, che l'indennita' non ha piu' come parametro il valore di un'area edificabile che pur pretende di compensare, bensi' un'area che al momento dell'imposizone del vincolo aveva una destinazione agricola. Proprio qui si coglie un elemento di contraddittorieta' e d'irrazionalita' della norma, la quale, da una parte, e' dettata per l'indennizzo delle aree edificabili e, dall'altro, pretende che per la valutazione dell'edificabilita' si debbano considerare le possibilita' legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell'imposizione del vincolo (risalenti all'adozione nel 1962 dell'attuale Piano regolatore), il che e' come dire tale valutazione verrebbe a riguardare un'area con destinazione a quel momento di riferimento agricola e non ancora urbana e urbanizzata. In tal modo, a parere della Corte, si svuota di contenuto il precetto costituzionale dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione, che impone la corresponsione di un indennizzo che costituisca serio riscontro per la perdita del bene espropriato, serio ristoro che deve necessariamente e direttamente collegarsi al valore economico attuale del bene stesso. Sotto altro profilo, attese le lungaggini del procedimento tra il momento dell'apposizione del vincolo e quello dell'espropriazione, puo' affermarsi che il legislatore, con la disposizione in esame, ha inteso premiare la lentezza e l'inefficienza dell'amministrazione, la quale, in tal modo, ha tutto da guadagnare nel divaricare al massimo nel tempo i due momenti dell'imposizione del vincolo e dell'espropriazione, atteso che al momento di espropriare e di pagare la relativa indennita' e' evidentemente conveniente, con il meccanismo legislativo censurato, che i dati per la valutazione siano i piu' remoti possibili. Da cio' emerge anche la violazione dell'art. 97 della Costituzione in quanto in tal modo non si e' certamente assicurato il buon andamento e l'imparzialita' della pubblica amministrazione. 3. - Fondati dubbi di incostituzionalita' vanno, a parere della Corte, avanzati nei confronti della disposizione, contenuta nell'ultima parte del primo comma dell'art. 5- bis, secondo la quale l'importo dell'indennita' di espropriazione e' ridotto del quaranta per cento, salvo il caso del soggetto espropriato che abbia convenuto la cessione volontaria del bene (art. 5- bis, secondo comma). La disposizione in parola appare, in primo luogo, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto introduce una vistosa disparita' di trattamento tra espropriati che accettano la determinazione dell'indennita' effettuata in via definitiva ed espropriati che non accettano siffatta liquidazione, in quanto l'ulteriore riduzione agisce come deterrente ed appare introdotta non tanto allo scopo di incentivare le cessioni volontarie, quanto con il fine evidente di scoraggiare o meglio di punire coloro che si rifiutano di consegnare l'immobile. Ma cosi' strutturata la disposizione appare in contrasto con i principi contenuti negli art. 24 e 113 della Costituzione, che tutelano il diritto di azione e di difesa del cittadino. Si consideri che la valutazione del valore venale di un'area edificabile e' procedimento tecnico-estimativo complesso, per cui si puo' prevedere che l'espropriato, dinanzi all'offerta dell'indennita' di espropriazione, non abbia i requisiti tecnici e di esperienza per verificare se la somma offerta sia congrua e correttamente determinata; ovvero, anche avendo i detti requisiti, non possa comunque controllare l'esattezza della stima, attesa la diversita' dei risultati che si ottengono con i diversi metodi estimativi; ovvero, si rendera' conto che la stima effettuata e' errata od incongrua. Ne consegue che il privato di fronte alla determinazione dell'indennita' si trova dinanzi ad un'alternativa assai rischiosa sotto entrambi i profili: o l'accetta cosi' com'e' anche se frutto di una valutazione inadeguata o imprecisa, ovvero, l'impugna correndo il rischio di un'ulteriore sensibile decurtazione del quaranta per cento. Riduzione che si applica in ogni caso, anche se il privato vede accolta la propria domanda di opposizione giudiziale alla stima, potendo addirittura verificarsi l'ipotesi che l'indennita' determinata dall'autorita' giudiziaria risulti ben superiore a quella offerta in via amministrativa, ma che per effetto della riduzione del quaranta per cento detta indennita' venga ad essere inferiore a quella offerta. Alla stregua di tali considerazioni, il diritto di agire in giudizio per l'accertamento dei propri diritti appare gravemente leso, per cui il perverso meccanismo introdotto dall'art. 5- bis, nella parte in cui sancisce in buona sostanza il pagamento di una penale del quaranta per cento della giusta indennita' nle caso che questa sia determinata in via giudiziale, contrasta con gli artt. 24 e 113 della Costituzione. 4. - Altro profilo di incostituzionalita' nasce dalla constatazione che la nuova normativa adotta una duplicita' di criteri di determinazione dell'indennita' di esproprio a seconda del tipo di suolo espropriato, confermando il criterio del valore agricolo medio per le aree agricole, richiamando appositamente il titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni ed integrazioni (art. 5- bis, della legge n. 359/1992, quarto comma). Come hanno osservato i primi commentatori della disposizioni, appare evidente il contrasto che si viene a creare tra le due diverse discipline espropriative dei suoli agricoli e dei suoli edificatori: la prima viene incontro all'espropriato mediante alcune indennita' aggiuntive, prevedendo da un lato, un prezzo di cessione che puo' arrivare fino al 150% dell'indennita' provvisoria (art. 12 della legge n. 865/1971 come novellato dall'art. 14 della legge n. 10/1977), senza influire su quella che sara' la successiva indennita' definitiva e dall'altro congrui vantaggi per i titolari di un diritto di godimento sui suoli stessi. Ed infatti se la cessione del bene e' operata dal proprietario che sia anche coltivatore diretto, il prezzo di cessione (art. 17, primo comma, della legge n. 865/1971, come modificato dall'art. 14 della legge n. 10/1977) e' previsto in misura tripla rispetto all'indennita' provvisoria, mentre se non vi e' identita' tra proprietario e fittavolo, mezzadro, colono o compartecipe, e questi ultimi sono stati costretti ad abbandonare il terreno, ad essi compete un'indennita' aggiuntiva calcolata in base al valore agricolo medio. La seconda penalizza il proprietaro concedendogli appena un terzo del valore penale e lo penalizza ancora di piu' se si tratta di un suolo edificatorio ancora coltivato da un fittavolo, mezzadro o colono: in tal caso secondo l'indiririzzo dela Corte costituzionale (sentenza n. 1022/1988), non trovando applicazione il criterio del valore agricolo medio, dall'indenita' corrisposta al proprietario, in base al principio dell'unicita' dell'indennita', andrebbe detratta l'indennita' per il coltivatore non proprietario facendo scendere al di sotto del livello del 30% del valore del bene l'indennita' di esproprio effettivamente corrisposta al proprietario espropriato. 5. - Ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale, in relazione alla violazione dell'art. 3 dela Costituzione, nasce dal rilievo che la nuova determinazione dell'indennita' presuppone la perfetta regolarita' del procedimento espropriativo. Ove, invece, il decreto di esproprio non sia stato emanato o sia stato dichiarato illegittimo, ovvero sia pervenuto tardivamente e quanti inutiliter datum, perche' successivo alla realizzazione dell'opera pubblica o all'intervento del pubblico interesse, trova applicazione la giurisprudenza relativa alla c.d. occupazione appropriativa. Sotto questo profilo e' evidente un'ulteriore vistosa ed ingiustificata disparita' di trattamento tra le due forme di espropriazione: l'una che rispetta per intero il procedimento espropriativo, ma che assicura al proprietario espropriato solo un terzo del valore venale del suo bene, l'altra priva del decreto di esproprio o con un decreto di esproprio tardivo e quindi inutile, assai diffusa nella pratica, e' piu' favorevole per il privato che ha diritto al risarcimento del danno in misura pari al valore venale del bene. 6. - Sotto diverso profilo si presta a censure di illegittimita' costituzionale la disposizione di cui al settimo comma dell'art. 5- bis, il quale dispone che la nuova determinazione dell'indennita' di espropriazione si applica ai procedimenti ancora in corso. Non ignora la Corte che il principio di irretroattivita', sancito nell'art. 11 delle preleggi, al di fuori del campo penale dov'e' esplicitamente costituzionalizzato, non assurge nella sua assolutezza a precetto costituzionale, ma rappresenta solo una direttiva per il legislatore ordinario, quale espresione di "civilta' giuridica" (vedi sentenza Coste costituzionale n. 13/1977), il quale puo' derogarvi in base a serie ragioni giustificatrici (vedi sentenze Corte costituzionale nn. 19/1970, 175/1974, 184/1976 e 70/1983). Orbene, proprio nella materia in esame, non e' dato vedere quali siano le serie ragioni giustificatrici per la deroga al principio della irretroattivita', tenuto conto che la normativa e' stata introdotta dopo una inerzia del legislatore durata per oltre dieci anni. Aggiungasi, poi, che la nuova disciplina riveste il carattere della provvisorieta', come si coglie subito alla lettura del primo comma dell'art. 5- bis, che rinvia all'emanazione di una futura disciplina organica per tutte le espropriazioni, per cui l'applicazione ai rapporti in corso del nuovo criterio di determinazione dell'indennita' non appare ispirato al giudizio di ragionevolezza, sicche' il legislatore ben poteva e doveva stabilire l'applicazione della nuova regolamentazione alle espropriazioni dopo l'entrata in vigore della legge.